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Evangelii Gaudium: commenti
La Evangelii Gaudium richiede una lettura attenta. Una lettura immediata e rapida è possibile e anche opportuna. Tuttavia per entrare nei nodi del testo occorre fare una seconda lettura perché si tratta di un testo che contiene un disegno ed è frutto di una maturazione durata anni, se non decenni, non solo di riflessione, ma anche (e soprattutto) di esperienza pastorale.

Le 4 tensioni interne della “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco


Vorrei solamente mettere in evidenza in maniera estremamente schematica alcune tensioni interne positive al testo che lo rendono dinamico e ne “agitano” lo sviluppo.

1) La tensione tra spirito e istituzione

Scrive Papa Francesco: «La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (22). Esiste una tensione dialettica intraecclesiale nel discorso che fa Papa Francesco tra Spirito e istituzione: l’uno non nega mai l’altro, ma il primo deve animare la seconda in maniera efficace, incisiva. In modo da contrastare l’«introversione ecclesiale» (27), come l’aveva definita Giovanni Paolo II, che resta sempre una grande tentazione. Scrive il Papa: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (49). Poi, più avanti, afferma: che la Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (111). È interessante notare questa ulteriore tensione fruttuosa che anima il testo: quella tra la Chiesa come «popolo pellegrino» e quella come «istituzione», che rispecchia le due definizioni di Chiesa predilette da papa Francesco, così come anche emerge nella intervista che mi ha concesso: «popolo fedele di Dio in cammino» (Lumen gentium) e «santa madre Chiesa gerarchica» (Sant’Ignazio di Loyola).

2)  La tensione tra differenza e unità

Nel testo emerge una tensione tra differenza culturale e unità della Chiesa. Scrive il Papa: «Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura» (115): «la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa» (117). Ciò significa che evangelizzare non significa affatto imporre determinate forme culturali, per quanto antiche e raffinate. Il rischio è di sacralizzare una cultura, di cadere nel fanatismo scambiato per fervore (cfr ivi). Uno tra gli effetti più significativi di questa tensione è il ricorso agli episcopato locali nel discernimento evangelico sulla storia. Leggiamo: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (16). Oltre alle tante volte in cui è citata la Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi a causa del documento di Aparecida, ritroviamo citati gli episcopati di Africa (62), Asia (62 e 110), Stati Uniti (64 e 220), Francia (66), Oceania (118), Brasile (191), Filippine (215), Congo (230) e India (250). Il Papa stimola le comunità cristiane ad «analizzare obiettivamente la situazione del loro paese» (184).

3) La tensione tra missione e discernimento

Le sfide richiedono un attento discernimento spirituale per riconoscere Dio all’opera nel mondo, le modalità della sua azione: «riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere quelle dello spirito cattivo» (51). D’altra parte non basta riconoscere che Dio è all’opera, bisogna operare per portare il Vangelo, per annunciare il kerygma. Da qui le tante esortazioni esclamative: «Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!» (80); «Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!» (83); (101); «Non lasciamoci rubare la forza missionaria!» (109). Da qui l’appello, o meglio, il «sogno», come l’ha definito il Papa, della «trasformazione missionaria della Chiesa».

4) La tensione tra i limiti e l’importanza della medesima Esortazione

Il Papa non crede «che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo» (16). E prosegue: «Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”» (51). «Né il Papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contemporanei» (184). «Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari» (241). Proprio all’inizio ribadisce di non avere «l’intenzione di offrire un trattato» (18). Tuttavia il Papa vuol dire cose importanti. «mostrare l’importante incidenza pratica» delle questioni che affronta. Sa bene, scrive, che «ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e delle conseguenze importanti» (25). Il tono spesso è quello della urgenza. Non è affatto un testo parenetico, come qualcuno ha frainteso. Ripeto: il Papa parla di «significato programmatico».
Queste tensioni interiori non sono le uniche. Ho indicato solamente quelle che, a mio avviso, maggiormente rendono il testo dinamico, rispondente al suo tono aperto, comprensibile nel dettato, non bloccato dentro schematismi rigidi e formule distanti dall’esperienza.

P. Antonio Spadaro S.J.  (Direttore de La civilità cattolica)

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